mercoledì 10 novembre 2010

α Leonis


Ermete riaprì gli occhi.
     Inizialmente, come ovvio che sia, fu luce. Abbagliante e stordente. Gli schiaffeggiò la retina come uno sciame di aghi trascuratamente sterilizzati.
     Poi iniziò a distinguere qualcosa. Tre linee, fondamentalmente. Una verticale, le altre due inclinate di sessantagradi all’incirca, speculari e sovrastanti la prima.
Le linee si congiungevano in un punto, che solo dopo alcuni istanti si rivelò essere l’angolo in cui si incontravano due delle pareti della stanza ed il soffitto.
     Tutto lentamente cominciava a delinearsi. L’effetto fuori fuoco si dissolveva lasciando spazio ad una rinvenuta distinzione della realtà.
Il bianco dei muri era intaccato da impronte e manate, e da enormi macchie verdastre, dovute all’umidità di qualche infiltrazione. Una di queste in particolare attirò la sua attenzione. Aveva una forma strana, gli ricordava quella del Kenya.
Una macchia a forma di Kenya.
     Lo sguardo piombò poi diritto davanti a sé, laddove un’esedra di donne vestite di blu circondava il letto sul quale egli stava disteso.
Quando dico “donne”, però, è opportuno fare una precisazione, affinchè non disperdiate i pensieri in luoghi comuni e stereotipati.
Erano brutte. Alcune anche grasse. Cinque o sei in tutto, non di più.
“E’ sveglio!” disse quella meno brutta.
“Sì! Guarda! Ha aperto gli occhi! Si è svegliato!” le fece eco la più grassa.
E da lì più o meno tutte e cinque (o sei) a ripetere frasi similari, in un gorgoglio affannoso di parole.
Ermete era confuso, oltre che inaspettatamente inorridito.
     “Largo, largo! Che sta succedendo?” squittì una voce dalle retrovie del muro femmineo.
Poi, scostando con un gomito le tette della grassona, fece capolino sulla scena un omuncolo, in camice bianco macchiato di pesto.
Ermete fissò il grande paio di occhiali che lo inquadrava. Dall’enorme montatura si affacciavano due pupille sbilenche dalle dimensioni di una coppia di angurie, alle quali stava appesa una faccia sottile e smunta.
Il nanetto si rivolse in primo luogo al distorto harem.
“Si può sapere che cosa fate tutte qui?”
“Pausa sigaretta” rispose quella con la voglia sulla guancia.
“Il mio paziente non è una sigaretta. Sciò.”
Le donne scomparvero.
“Bene, bene.” disse poi l’omino rivolgendosi ad Ermete “Ci siamo svegliati, eh? Ce la siamo presa comoda, eh? Dormito bene?”
Il dottorino ammiccò. Era il classico tipo di persona che si crede simpatica.
Ermete tentò di rispondergli male, ma aveva ancora la gola in panne.
“Vediamo un po’ in che condizioni siamo, ok?” e ammiccò nuovamente.
Con un numero di prestigio fece fuoriuscire dalla manica una cartellina di metallo, dal cui interno sbucarono una trentina di fogli di carta. Prese poi a scannerizzarli con gli occhi, e ad ogni cambio di foglio annuiva e diceva “uhm, uhm.”
“A quanto sembra qui abbiamo un bel po’ di lavoro da fare. Ma non si preoccupi, ora che si è svegliato le cose saranno molto più semplici, signor, signor…” guardò su un foglio “…Ermete.”
Poi tentò di rimettere in ordine le sue scartoffie, riuscendo senza nemmeno troppo sforzo a farne cadere più della metà a terra.
“C-Chi…” Ermete prese finalmente a parlare.
“Come dice?” domandò l’esaminante, tirandosi su.
“Chi…chi diavolo è lei?”
“Io? Sono il vostro dottore, mi prenderò cura di lei d’ora innanzi. Per qualsiasi cosa, basterà chiamare e io arriverò in un baleno. Al vostro servizio, sir!” e sfoggiò la dentatura.
Il paziente rimase basito.
“Per caso le hanno mai detto che lei è una persona davvero simpatica?” chiese Ermete.
“Ahahah! Beh, onestamente no.”
“Allora forse è il caso che cominci a domandarsi come mai nessuno lo abbia mai fatto.”
Il dottore tentennò.
Poi sorrise, poi ammiccò, poi se ne andò.

*****

L’uscita di scena silenziosa e solenne del piccolo omino non turbò più di tanto la quiete di Ermete.
In quel momento c’erano cose più importanti sulle quali porre la propria attenzione.
Dove fosse e perché si trovasse lì, ad esempio.
Ad occhio e croce, il luogo appariva come un ospedale, o qualcosa di simile.
Un ospedale vecchio e sporco.
Sì, qualcosa di simile.
Ma perché era lì? Si era risvegliato, ma da quanto tempo stava dormendo?
     Pensò ad un incidente, al superamento di uno stato comatoso. Il dottore non aveva accennato a nulla di tutto ciò. Lui sorrideva e ammiccava solamente.
Pensieri sottili cominciarono a sovrapporsi come un castello di carta. Nulla riusciva a stare in equilibrio.
Se davvero era stato coinvolto in un incidente, doveva essersi trattato di qualcosa tanto grave da intaccare persino la sua memoria.
Eppure niente, non riusciva a ricordare.
     Provò a perlustrare il proprio corpo in cerca di segni, ferite rimarginate, cicatrici. Nessuna traccia.
Era intatto, come nuovo. O almeno così pareva.
Cominciò a spazientirsi. Sentì crescere il desiderio di abbandonare il letto e fuggire, ma non aveva ancora le forze necessarie.
     A quel punto quel silenzio soffocato di teorie confuse fu interrotto.
“Lei non è certo un uomo gentile. Direi piuttosto scostumato.”
Ermete di colpo si accorse di non essere solo nella stanza. Era talmente preso dai suoi pensieri che aveva smesso di usare gli occhi.
La voce proveniva da ore tre. Ermete si voltò e vide un’asta metallica alla quale stava appesa una flebo.
Prima che potesse cominciare a parlare con quell’oggetto, però, la voce riprese.
“Sono qui, se è me che cerca.”
Era dietro. Dietro la flebo. C’era un letto. Sul letto stava seduto un uomo. Salutava con la mano. E’ da lui che proveniva la voce.
“Ah, e lei chi sarebbe? Di certo, non una persona gentile, dal momento che si è appena lasciata scappare un pregiudizio senza fare troppi complimenti.” Ermete ringhiò pure.
“Ha ragione, errore mio. Son contento che si sia svegliato, finalmente ho qualcuno con cui poter parlare.”
“Fantastico. Più tardi sarò lieto di offrirle un caffè, così diventeremo grandi amici. Ora, perché non mi dice che razza di posto è questo?”
“E’ una clinica.”
“Una clinica, certo. Ma io non sto male.”
“Se si trova su quel letto, evidentemente quest’affermazione è errata.” e rise beone.
“Ne dubito. Da quanto tempo è che sono qui? Per quanto ho dormito?” Ermete mitragliava domande.
“Qualche mese, credo. Cinque, sei forse. Si è fatto un bel sonnellino. Eheheh!”
“La cosa la diverte? Bene, mi sento sollevato. Evidentemente per lei è comodo riderci su.”
‘Sei mesi, cazzo’ pensò Ermete. Sei mesi di buio. E prima? Buio anche quello.
Dopo una breve pausa, decise di domandare.
“Che cosa mi è successo? Chi mi ha portato qui?”
“E’ una domanda che si pongono un po’ tutti, appena svegli. Dopotutto, è più che lecito.”
“Non mi ha risposto.”
“Nessuno, nessuno. Nessuno l’ha portata qui, mio buon amico.”
“Ah, certo. Allora sono nato qui. Oppure mi ci sono teletrasportato. O peggio, sono venuto da solo, di mia spontanea volontà.”
“Non esageriamo adesso. Si può nascere negli ospedali, certo, ma mica ci si vive. E il teletrasporto è roba da fantascienza. Ad ogni modo, ciò che ha detto è corretto.
Lei qui ci è venuto da solo.”

*****

In quel momento un’infermiera cigolante irruppe nella stanza. Era brutta anch’ella.
Spingeva un carrello tremante, sul quale stavano impilati dei vassoi d’acciaio. All’interno dei vassoi, svariate pietanze.
“Finalmente si mangia!” esclamò l’altro uomo. Ermete a malapena riuscì ad accorgersi dell’entrata della donna.
Questa porse ad entrambi un piatto.
Quale che fosse la ricetta, non aveva nulla di invitante.
Ad Ermete toccò una sorta di brodino, nel quale galleggiavano dei cubetti simili a polistirolo. Guardandolo, ebbe un’espressione contorta dal ribrezzo.
“E io dovrei mangiare questa roba?” domandò al suo compagno di stanza.
L’uomo sghignazzò, sorseggiando il suo sudicio sughetto.
“Coraggio, lo provi! Non è male come sembra. All’inizio sa di catrame, ma poi ci si abitua e non si riesce a farne a meno.”
“Catrame, certo. Dopo sei mesi di sonno, non c’è nulla di meglio del catrame.”
“Ahahah! Lo vede? Dovrebbe cercare di convertire la propria acidità in sarcasmo. Sarebbe un ottimo intrattenitore.”
“Mi ricorderò di chiederle consiglio su qualcosa non appena ne avrò bisogno. Ora mi lasci mangiare.”
     Disse così, e fece per inserire in bocca il primo cubetto.
Il primo cubetto, pochi istanti dopo essere entrato a contatto con la lingua di Ermete, tornò a far compagnia agli altri all’interno del piatto.
L’altro uomo rise di gusto, continuando a mangiare.
Ermete lo ignorò, e si liberò dell’astruso nutrimento poggiandolo sul piccolo comodino al lato del letto.
     A quel punto notò che la porta della stanza era rimasta aperta. L’orrenda infermiera era oltremodo sbadata.
Mentre l’uomo continuava a riempirsi lo stomaco, Ermete allungò il busto per sbirciare al di fuori della stanza. Tutto ciò che riuscì a scorgere fu il corridoio deserto e silenzioso.
Senza che potesse rendersene conto, aveva sperato inconsciamente che lì fuori ci fosse qualcuno che lo stesse aspettando.

*****

“Lei ha detto che io qui ci sono venuto da solo.” Ermete si rivolse al compagno di stanza, il quale era ancora intento a pranzare.
“Prego?”
“Dico, ammesso che io sia venuto qui da solo, perché lo avrei fatto? Non sono malato. Né d’altro canto riesco a capire il perché di un sonno così lungo. Sono stato ibernato, o cosa?”
L’uomo poggiò il piatto e prese a ridere.
“Deve aver visto un po’ troppi film, caro compagno. Lei è venuto qui perché aveva bisogno di cure. Come tutti noi.”
“Quindi anche lei è arrivato qui di sua volontà? Eppure mi pare che sia bello sveglio. O forse le son bastati soltanto tre o quattro giorni di sonno?”
“Non sia sciocco. Non abbiamo tutti lo stesso male. Ogni terapia è diversa e richiede tempistiche differenti. Io, ad esempio, ho dormito per un anno e mezzo, ancor prima che lei arrivasse qui.”
“E cosa ha fatto nei mesi seguenti? E’ rimasto lì ad aspettare che mi svegliassi io, a guardarmi mentre ronfavo?”
“Perdonami, ma questa conversazione non può andare avanti in questo modo. Siamo quasi coetanei, diamoci del tu.”
“Come vuoi. Non sarebbe male che mi dicessi anche il tuo nome, a questo punto.”
“Mi chiamo Polideuce.”
“Cavolo, un gran bel nome. Scommetto che alle elementari ti prendevano in giro.”
“E’ di me o di te che stiamo parlando?” ammiccò “Dietro la maggior parte dei nomi si nasconde un significato, piccolo o grande che sia.”
Ermete rimase un secondo a riflettere. Nel frattempo la luce del meriggio cominciò ad illuminare le piastrelle sporche del pavimento.
“Ma voglio rispondere alla tua domanda” riprese Polideuce “Nei mesi seguenti sono rimasto qui per la terapia. Presto dovrebbe terminare, e a quel punto, con le cure adatte, potrò tornare alla mia vita. O almeno è ciò che spero.”
“La terapia…in cosa consiste?”
“Oh beh, nulla di eccessivamente complicato. Certo, a volte può richiedere un po’ di tempo.
Consiste fondamentalmente nel capire quale sia il male che ti ha spinto a ricoverarti.
Nel capire perché sei qui.”

*****

“Dobbiamo fare delle analisi.” disse il dottorino, riapparso magicamente nella stanza.
La conversazione tra Ermete e Polideuce dovette quindi interrompersi.
Il piccolo uomo dal bianco camice si avvicinò con decisione al letto del paziente novello sveglio, munito di una siringa che pareva fatta in proporzione al braccio di Godzilla.
     “Dove crede di andare con quella cosa?” domandò Ermete.
“Suvvia, giovanotto. Non vorrà farmi credere che alla sua età lei abbia ancora paura delle punture? Devo farle solo un piccolo prelievo. E’ per le analisi. Prima le facciamo, prima procediamo con le cure.” il dottore sorrise smagliante.
“Non sono malato. Sono solo un po’ stanco.” replicò Ermete.
     L’omino neppure sentì. Si sedette al lato del letto, prese con la manina il braccio del paziente e al primo colpo beccò la vena giusta. Drenò via diversi galloni di sangue. La siringa sembrava stesse per esplodere.
“Perfetto!” disse il dottore, ammiccando.
“Al diavolo.” fu la debole replica. Se avesse avuto forze sufficienti, Ermete avrebbe volentieri preso a sberle quel nanetto in camice.
Dall’altro lato della stanza provenivano le risa soffocate di Polideuce.
Il dottore riprese.
“Adesso ci sarà da aspettare un po’. Dopodiché, non appena avremo i risultati, decideremo come organizzare la terapia. Posso misurarle la pressione?”
“No.”
L’omino abbandonò la stanza lasciando alle sue spalle una scia di sorrisi.
     Ermete si sentiva svuotato. Prese a guardarsi intorno, a squadrare ogni angolo di quella lurida stanza.
Sporco.
Macchie.
Occhi sul Kenya.
“Perché questo posto è così fatiscente?” chiese rivolgendosi a Polideuce.
“Facile. Mancanza di fondi. Lo Stato se ne infischia di cliniche come questa. In molti non sanno neppure che esistano posti del genere. Ne consegue che anche i pazienti che si ricoverano sono in numero ridottissimo.” rispose.
“Voglio andarmene. Non sto male.”
“Sì, invece. Stiamo tutti male.”
Un rumore di oggetti metallici che cadono rovinosamente a terra provenne da non molto lontano, nel corridoio. L’infermiera sbadata aveva colpito.

*****

Ermete rimase muto per quasi tutto il pomeriggio, fermo a riflettere sulla sua condizione.
Non aveva voglia di riprendere a parlare con Polideuce, nonostante continuassero a balenargli in testa miriadi di domande che avrebbe voluto porgli.
Il silenzio si ruppe.
“Quindici orizzontale. ‘Corpo celeste’. Cinque lettere.”
Polideuce teneva in mano una rivista di enigmistica e una Bic nera.
“Astro.” rispose Ermete, quasi meccanicamente.
Poi si voltò per ricevere il sorriso di ringraziamento del compagno di stanza.
     “Usi la penna per fare i cruciverba?” domandò.
“Certamente. Chi usa la matita non è sicuro delle proprie azioni. Crede che ci sia sempre la possibilità di correggere gli errori. Di cancellare e rimediare.”
Ermete la pensava allo stesso modo.
Passarono alcuni minuti, nei quali Polideuce incasellò correttamente una decina di parole.
Gli aloni sul muro sembravano sciogliersi, mutare ad ogni secondo trascorso.
     “Ancora non riesco a capire.” disse Ermete “Perché mi tieni nascosta la verità su questo posto? Siamo forse malati terminali, e vuoi evitarmi il sapore della realtà? O magari siamo matti, fuori di testa, è questo altro non è che un istituto di salute mentale?”
Le parole di Ermete tremavano.
“Non stiamo morendo, Ermete. Né siamo matti. Assolutamente.” rispose con molta calma Polideuce, tenendo lo sguardo fisso sul cruciverba.
“I matti non fanno altro che ripetere di essere sani.”
“Ogni persona dice sempre di non essere ciò che in realtà, nel profondo, è. E viceversa. Tu, ad esempio, dici di non essere malato.”
Ermete tacque. Si guardò le mani. Strinse i pugni sul lenzuolo sudicio. Tossì.
“Tu che problema hai? Tumore? Spina dorsale? Diabete?”
Polideuce smorfiò. Parola troppo lunga e caselle insufficienti.
“Niente di tutto questo.” rispose ridente “Non vengono curati mali del genere qui. Per queste cose c’è la Bilancia, o il Fatebenecugini. Ospedali di diverso tipo.”
“Dunque cosa facciamo in questo posto? Qual è il nostro male? Che diavolo curano qui?”
Polideuce chiuse la rivista, lasciando la penna nel mezzo a mo’ di segnalibro. Poi si voltò verso Ermete.
     “Circa un mese fa, nella stanza di fianco, c’era un paziente di nome Egocero. Egli era rabbioso, violento, insoddisfatto. Era sempre pronto a menar le mani, nei confronti di chiunque non gli desse ragione. Chiunque non andasse nella sua stessa direzione. Una persona egocentrica. Desiderava ostinatamente che lo si venerasse. Le infermiere e i dottori lo avevano soprannominato Narciso. Buffo, no?”
“Non capisco.”
“A quanto pare però, alla fine la sua terapia ha funzionato a meraviglia. Lo hanno curato. Ora Egocero è una persona nuova. E’ guarito.”
Ermete cercava di cogliere un qualche significato, ma il discorso continuava ad apparirgli confuso.
“E’ di questo che si tratta, dunque? Curare la rabbia? Calmare le persone?”
“Non abbiamo tutti lo stesso male, Ermete.”
Ancora una pausa.
Vassoi cadevano nei corridoi.
     “Anche Egocero venne qui di sua volontà?”
“Certo. Nessuno si trova qui se non per desiderio personale. Chiunque prima o poi raggiunge il limite, non riesce più a tener testa a se stesso. Soccombe lentamente sotto il peso delle proprie azioni. Marcisce. Piange, urla, vomita.
Quando ciò accade vi sono diversi modi di comportarsi a riguardo.
Alcuni, pochi purtroppo, alla fine prendono una decisione. Si lasciano andare, chiudono gli occhi, e al loro risveglio è qui che si ritrovano.”
Ad Ermete il tutto suonava come qualcosa di assurdo, eppure allo stesso tempo vivido e reale.
“E tu, invece? Che male hai?”
“Io sono un traditore, Ermete. Io ho tradito.”
Silenzio.
“Sei sposato, Polideuce?”
“Forse.”

*****

La mattina seguente Ermete ritrovò forze sufficienti per abbandonare il letto.
Alzatosi, trascorse una buona mezz’ora a guardare fuori dalla finestra della stanza, senza sporgersi.
Gli infissi di plastica consunta inquadravano un giardino stepposo.
L’aria fuori era più pulita.
Polideuce se ne stava a letto a leggere un libro di qualche migliaio di pagine.
     “Quanto tempo fa è successo?” domandò Ermete, senza distogliere lo sguardo dagli alberi spogli che costeggiavano la pista ciclabile.
Polideuce alzò lo sguardo, chiuse il libro e prese a parlare.
     “Circa due anni fa. Senz’altro il periodo migliore della mia vita.
Scrivevo racconti. Roba che pensavo fosse banale, e che nessuno avrebbe mai voluto leggere. Storie di vita quotidiana con una spruzzata di assurdo. ‘Nulla di che’ pensavo.
     Il caso volle che incontrassi questo piccolo editore. ‘I tuoi scritti sono fantastici! Voglio pubblicarteli!’ disse. E lo fece.
La notorietà arrivò subito, come un treno sparato a diecimila chilometri orari. Cominciai a viaggiare in lungo e largo con la mia famiglia, a partecipare a convegni e a presenziare nelle più grandi librerie di ogni città importante. Soldi e fama. Se me l’avessero detto mentre buttavo giù i primi appunti, di certo non vi avrei creduto.”
“Poi cosa successe?”
     Nel giardino una giovane donna passeggiava tenendo per mano un bambino dai capelli color platino.
“Poi mi scontrai con il fato. Ero a Verbalia, per l’uscita del mio secondo libro. Firmavo dediche ed autografi. Facevo foto e sorrisi.
Una ragazza emozionatissima mi porse il mio primo libro. Bella come un raggio di sole. Giovane come l’acqua di fonte. Ma ciò che vidi io in quel momento altro non era che la sua carne. Mi colpì dentro come una folgore.
All’epoca ero in viaggio da mesi, e da altrettanto tempo non facevo sesso. Mia moglie aveva frequenti emicranie.
Fu allora che la tradii.
Il mio sbaglio.
L’errore.
L’amo ancora.”
     Ermete assimilò la storia con gelido distacco. Impassibile, e senza mostrare un briciolo di compassione, rimaneva ad osservare il bambino che giocava con il pallone in mezzo all’erba alta. La madre, seduta su una panchina, leggeva una rivista scientifica.
“Devi averle fatto molto male. Più di quanto credi. E’ dunque per lei che hai deciso di ricoverarti?”
“Per lei, e per le mie figlie. Euterpe, Erato. Le mie gemelle. Da quando sono qui non le ho più riviste.”
A quel punto Ermete si voltò.
Guardò in direzione della porta, nel corridoio.
Non v’era nessuno.
Nessuno lo aspettava.
     “Riesci a capire adesso? Ognuno di noi commette errori. Ognuno porta con sé un male. E il mio è qui.” disse poi Polideuce, ticchettandosi sulla tempia con un dito.
“Il problema è nella mia testa. Distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Frenare gli istinti. Voler bene a chi davvero lo merita. Essere fiduciosi e dare fiducia. Non tradire. Il mio problema è qui. Io sono venuto in questo posto perché voglio guarire.”
Fece una breve pausa. Strinse con forza tra le mani il suo libro. Ermete rimaneva in silenzio.
“Io non so perché, ma ho la sensazione che tu riesca a capire perfettamente quello che ti sto dicendo.
Non dovremmo mai farci del male l’un l’altro.
Tu, Ermete, hai mai fatto del male a qualcuno?”
     Giù nel cortile, il bambino giocava. Sorrideva alla madre che da lontano lo vedeva e lo salutava.
A quella visione, Ermete provò uno strano senso di nostalgia.
Il bambino inciampò nel rincorrere il pallone. Si era sbucciato un ginocchio. Piangeva.
La madre gli asciugò via il sangue con un bel fazzoletto viola.

*****

Quando si svegliò, il soffitto slittava veloce sopra i suoi occhi.
Luci al neon in sequenza rapida.
La lettiga sulla quale si stava muovendo barcollava.
Ai suoi fianchi, due infermiere lo guidavano attraverso i corridoi.
Confusione.
“Che succede? Dove mi state portando?”
Gli rispose una delle due donne, senza guardarlo in faccia.
“Le analisi, Ermete. Hanno dato esito negativo. Dobbiamo operarla di urgenza, altrimenti non guarirà.”
“Operarmi? Ma io non sono malato! Lasciatemi andare!”
‘Non sto male’.
Curva insidiosa.
‘Voglio andare via da qui’.
Luci al neon.
‘Nessuna macchia’.
Intermittenza.
‘Kenya’.
“Da questa parte.” disse l’altra donna.
“Che diavolo state facendo? Chi vi da’ il permesso?”
“E’ una sua volontà, Ermete. Dobbiamo operarla.” rispose il dottore, accostatosi a grandi passi nei pressi del lettino.
Entrarono in una piccola sala dove un’equipe di medici era intenta ai preparativi.
“Operarmi? Perché? Dove?”
Il dottore gli poggiò la mano sulla spalla, stringendo forte.
“Al cuore, Ermete.
La operiamo al cuore.”
L’infermiera avvicinò al volto del paziente la maschera per anestesia.
Ermete richiuse gli occhi.
     E, lentamente, si spense.


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